In questo articolo ci proponiamo di affrontare il tema sempre più attuale della longevità, dell’ “invecchiamento“, presentando un lavoro realizzato nel contesto di una RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale) italiana, con lo scopo di favorire negli anziani ospiti della struttura
dei cambiamenti significativi della propria vita basati sulla capacità di accettare le limitazioni e le sofferenze tipiche di questa fase della v
ita e di impegnarsi ancora per i valori in cui credono.
Questi aspetti sono ben rappresentati nel modello dell’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT), un approccio che mira a sviluppare nel soggetto nuove strategie con cui gestire le proprie esperienze private spiacevoli, accettando la sofferenza e cercando al tempo stesso una via per migliorare la propria condizione sulla base dei valori ed obiettivi ritenuti importanti.
Tra gli obiettivi del lavoro vi è quello di esplorare se accettazione e impegno siano legati a depressione e qualità di vita dell’anziano.
Lo Psicologo Dr. Luca Freschi, autore del lavoro qui presentato, scrive:
Muore bene chi vive bene diceva Seneca, e prevenire è meglio che curare.
Ci tenevo a fare un lavoro di ricerca che potesse avere un’utilità pratica per i sofferenti (perché la psicologia non si dovrebbe mai dimenticare delle persone), e mi sono accorto che forse il problema della vita è più grave di quello della morte. Mi spiego meglio:
Seneca affermava che “è importante vivere bene, non vivere a lungo”, e questo concetto forse non è molto diffuso nella mentalità corrente. Allora mi è sembrato interessante puntare a sviluppare qualcosa che aiutasse le persone a riempire di significato anche la parte finale di una vita che è sempre più ampia ma spesso non altrettanto ricca. Soffro nel vedere anziani soli, spenti, ai margini della società. Potrebbero essere una grande risorsa e invece si ritirano, si rassegnano, si chiudono in un pessimismo che non fa altro che far sembrare la vecchiaia più lenta e triste di quello che realmente è.
Cosa significa “invecchiamento” ?
L’invecchiamento viene abitualmente definito come “una progressiva riduzione di ogni funzione dell’organismo, che si manifesta a partire dall’età adulta, causando una riduzione della capacità di rispondere agli stress ambientali e un aumento della probabilità di ammalarsi e di morire” (Bergamini, 2006).
La rivoluzione della longevità è tra le più grandi e di portata epocale che la storia umana abbia conosciuto. In meno di un secolo la società occidentale ha quasi raddoppiato l’aspettativa di vita, ma dato che si sono abbassati i livelli minimi di funzionamento necessari per restare in vita l’invecchiamento continua a erodere tutte le funzioni del corpo e, anzi, può consumarle più a lungo.
Questa rivoluzione non solo ha mandato in tilt lo stato sociale, ricoprendo un ruolo importante nella crisi economica, ma pone difficili domande di tipo esistenziale. Non tanto come vivere una vita più estesa, ma come affrontare una vecchiaia sempre più lunga (Bruni 2012).
In questo contesto socioculturale, sempre più persone si ritrovano nell’ultima fase della propria vita con una o più condizioni croniche di malattia e marcati deficit di autonomia con importanti riflessi a livello psicologico e sociale. Per queste persone spesso l’unica soluzione di cura consiste nel ricovero in una RSA, in cui la quasi totalità degli ospiti presenta un’elevata comorbilità e il 40% di essi presenta uno stato ansioso-depressivo (Modesti, 2006).
L’universo anziani non è interpretabile correttamente se lo si analizza solo dal punto di vista sanitario. L’invecchiamento della popolazione interessa lo stato sociale – sanità, previdenza, assistenza – nel suo complesso. L’anziano necessita di relazioni affettive, di rapporti sociali e di una medicina del territorio che risponda ai suoi bisogni multidimensionali (Vergani, 2007).
Migliori condizioni socio-culturali, affettive e relazionali, il livello economico condizionano la direzione, la lunghezza e la qualità della traiettoria di vita di ciascun individuo favorendo un invecchiamento potenzialmente più sereno. Oltre a ciò, entrano in gioco anche la forza e l’equilibrio della personalità, la tendenza ad agire o a subire gli eventi, il carattere più propenso a cogliere e valorizzare gli aspetti positivi piuttosto che quelli negativi, nonché l’orientamento ideologico e spirituale. Vanno ricordati inoltre anche i fattori esterni all’individuo, come il supporto ricevuto, la rete relazionale e l’inesorabile trasformazione della società (Annoni, 2008).
Quando un anziano parla del proprio stato tende ad esprimersi in termini di diminuzione o di perdita di alcune capacità, utilizzando espressioni al negativo: “non ho più l’appetito di una volta”, “non mi ricordo più le cose”, “non ci vedo più tanto bene”, “mi mancano le forze per fare quello che facevo prima”, etc. Solo in alcuni casi è presente la serenità e la consapevolezza per poter comunicare cosa di nuovo si è aggiunto, e cosa è migliorato nel tempo (sintomi positivi).
Allo stesso modo vengono spesso prima menzionati i sintomi organici, e solo successivamente quelli di ordine psichico, anche nel caso in cui questi ultimi siano di gran lunga più rilevanti dei precedenti.
Anche per chi non presenta gravi patologie è difficile accettare il lento declino dell’età, e spesso si tenta di ricoprirne le tracce, spesso evidenti in un corpo che ha subito l’affronto del tempo e della malattia. Il ricorso alla chirurgia plastica ed alla medicina estetica non è più appannaggio di pochi. (Beffa Negrini 2005)
Anche dallo studio condotto dal Dr. Luca Freschi emerge la fatica ad accettare la curva discendente della vita e il far fronte alle sofferenze sempre crescenti dovute alla malattia, alla mancanza di autonomia e di libertà nel scegliere orari, cibo e stili di vita.
Ciò che più disturba è l’avere grande disponibilità di tempo libero e mancare tuttavia delle energie o delle possibilità per impiegarlo come si è sempre fatto nel corso della vita. C’è come un ritiro nelle persone anziane, una rassegnazione nell’attesa dell’ultimo passaggio della vita, atteso quasi come una liberazione. Allo stesso tempo, chi ha affetti o interessi particolari che riesce a coltivare anche in una condizione di istituzionalizzazione, riesce a dare sapore anche alle lunghe giornate in RSA; queste persone hanno una motivazione forte per vivere e per continuare ad impegnarsi in quello che fanno: le relazioni con la famiglia o con gli amici, la lettura, la preghiera o le attività organizzate.
Oggi, data l’enorme importanza attribuita a valori quali l’efficienza, la produttività e l’individualismo, c’è sempre meno spazio per scoprire le risorse e le potenzialità che gli anziani da sempre posseggono in termini di saggezza ed esperienza, e l’attenzione ricade così sulle cure di cui necessitano, sui deficit e sulla perdita di autonomia. Anche la graduale perdita della visione religiosa del mondo ha contribuito a rendere più critica la fase dell’invecchiamento: avvicinarsi alla morte è visto più spesso dagli anziani come un avvicinarsi al nulla (Bruni, 2012).
Infine la famiglia: oggi troppe persone invecchiano senza essere stimate, spesso in solitudine, con un grande “credito di cura”, mentre la grande gioia degli anziani è sempre stata la discendenza, vedere che una parte di sé cresceva e continuava a vivere, e che dava senso a quel declino.
Cosa fare per invertire la rotta?
Abituati a considerare la Quality of Life come indicatore di buona assistenza psicologica e sanitaria, ci si chiede se la stessa assistenza, nel caso dell’anziano, non debba integrarsi anche con una cura della Quality of Death. Nel 1997 l’Institute of Medicine ha definito la buona morte come: “la morte libera da stress e sofferenza evitabili per il paziente, per i familiari e per il personale di assistenza, in accordo con i desideri del malato e della famiglia, desideri che non siano comunque in contrasto con gli standard clinici, culturali ed etici” (Ritossa, 2005).
Steinhauser (2000) definisce in una ricerca sei aree di attenzione che concorrono a definire una buona morte che potrebbero essere riassunte come l’esigenza per l’anziano di continuare ad essere persona fino alla fine: avere la possibilità di agire e reagire, di mantenere il controllo sulla propria vita accettandone al tempo stesso l’inevitabile fine, circondato dalla rete di affetti e relazioni che lo ha accompagnato fino a quel punto. Il morente sereno è l’anziano che sente di essere alla fine della vita, che ha lavorato e sofferto, ha allevato i figli, li ha “sistemati”, ha concluso il suo compito.
Occorre gestire al meglio gli anni dell’invecchiamento cosiddetto “attivo”: una persona vive pienamente quando è inserita all’interno di reti sociali nelle quali cresce, coltiva la propria socialità, ed è utile a qualcuno e per qualcosa.
Si potrebbe anche affermare che la rilevazione dei bisogni potrebbe svolgere una funzione preventiva in quanto permetterebbe il riconoscimento delle aree di fragilità prima che esse diventano delle situazioni da prendere in carico, cioè prima che diventino un disturbo.
E’ importante anche la consapevolezza da parte degli anziani dei propri bisogni di natura psicologica e sociale e la constatazione che queste dimensioni sono quelle che ricevono la minore attenzione in termini di risposte. Ciò richiede un’attenzione particolare a questa dimensione della vita dell’anziano, la necessità di un suo adeguato riconoscimento e lo sviluppo di metodi validi per fornire delle risposte adeguate (Chattat & Celeste, 2008).
Si sente la necessità di aiutare queste persone, di “fargli fare la pace” con le loro limitazioni e con la loro condizione, e al tempo stesso di motivarle a non accontentarsi di far passare il tempo, ma stimolarle a mettersi ancora in gioco per ciò che ritengono importante.
In breve, l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) tenta di insegnare agli individui a fare esperienza dei propri pensieri e delle proprie emozioni piuttosto che cercare di cambiarle o rimuoverle o evitarle. Agli individui viene chiesto di lavorare nella direzione degli obiettivi e dei valori che posseggono mentre esperiscono i loro pensieri e sentimenti. L’ACT propone anche una nuova definizione di successo cioè “vivere secondo i propri valori”. Adottare questa definizione implica la possibilità di avere successo nel presente, anche senza aver già raggiunto gli obiettivi più importanti. E si è liberi dal bisogno dell’approvazione altrui. Una logica del successo basata invece sul raggiungimento degli obiettivi ci condanna a una frustrazione cronica punteggiata da fugaci momenti di gratificazione.
I risultati dello studio
I dati ottenuti dallo studio condotto dal Dr. Luca Freschi indicano come gli anziani siano ben consapevoli della loro condizione, e come a parole affermino di impegnarsi in ciò che considerano di valore. Tuttavia le domande sull’impegno e a quelle sul cambiamento (“quanto e come si impegna ancora…?”; “cosa pensa di poter fare…?”; “cosa pensa che l’aiuterebbe ad accettare…?”) fanno emergere una scarsa consapevolezza del proprio ruolo nel mettere in pratica un cambiamento:
Sono pochi quelli che si mettono realmente in discussione per un possibile cambiamento verso una condizione di vita migliore. I più sono convinti che non sono loro a dover cambiare ma il contesto intorno a loro.
Dovrebbero essere migliori le loro condizioni di salute, i modi di fare del personale, gli orari, il cibo, la frequenza delle visite ecc.
Come ci si aspettava, accettazione e impegno generalmente migliorano la qualità della vita e ostacolano l’insorgere della depressione. Ma di maggiore importanza sembra essere l’impegno probabilmente perché impegnarsi concretamente per cambiare la propria condizione è l’ultimo passaggio e quello fondamentale per migliorare il proprio livello di qualità di vita e benessere psicologico in generale.
Conclusioni
A differenza dei classici approcci, le nuove terapie cognitivo-comportamentali non si occupano del recupero delle funzioni perse, ma focalizzano l’attenzione su quanto il soggetto è ancora in grado di dire e di fare. L’obiettivo della terapia è che la persona possa essere felice e vivere una vita piena e significativa, per quanto possibile, accettando la condizione presente e agendo coerentemente con i suoi valori per operare possibili cambiamenti. Questo è importante in particolare se si vuole applicare il modello alla popolazione anziana, che per motivi oggettivi non può basare il successo sul raggiungimento di certi obiettivi non più alla propria portata. Può essere promettente applicare questo modello in RSA, dove si riscontrano elevati tassi di depressione e la routine dell’istituzionalizzazione può portare a una perdita di motivazioni e di interesse verso la vita.
Il tempo che precede la morte può anche essere utile al compiersi di una persona, a una trasformazione di chi le sta accanto. Molte cose possono ancora essere vissute. Su un terreno più sottile, più interiore, sul terreno delle relazioni con gli altri. Quando non si può più fare nulla, tuttavia si può ancora amare e sentirsi amati.
De Hennezel
Dr. Luca freschi
Psicologo
Laureato Magistrale in Psicologia Clinica dal 2013.
Bibliografia:
- Annoni, G. (2008), Invecchiamento, cultura ed ambiente, Geront, 56(suppl 1).8-10.
- Beffa Negrini, P. (2005), I vissuti di malattia nella terza età: il fantasma della perdita e i tentativi di ritrovamento, Geront, 53, 560-565.
- Bergamini, E. (2006), L’arte della longevità: contrastare l’invecchiamento per combattere la fragilità, Geront, 54(Suppl 2),54-58.
- Bruni, L. (2012, September 9), Allo specchio della vecchiaia. Guardiamoci e cambiamo registro. Avvenire, p. 1.
- Chattat, R. & Celeste, C. (2008), La valutazione dei bisogni nell’anziano. Versione italiana del CANElderly, Ricerche di Psicologia, 1-2.
- Modesti, B. (2006), Dal “dare le cure” al “prendersi cura” Guida all’accesso ai servizi residenziali per anziani e anziane, Dipartimento Politiche Socio-Sanitarie e Ambientali.
- Ritossa, C. (2005), Si può parlare di “buona morte”?, Limen, Disponibile in: http://www.limenonline.it/it/ej-articoli/content/detail/0/178/423/si-puo-parlare-di-buona-morte.html [19 ottobre 2012]
- Steinhauser, K. E., Clipp, E. C., McNeilly, M., Christakis, N. A., McIntyre, L. M., & Tulsky, J. A. (2000), In Search of a Good Death: Observations of Patients, Families, Annals of Internal Medicine. 132(10):825-832.
- Vergani, C. (2007), L’invecchiamento della popolazione. Oltre l’assistenzialismo, Geront,55, 65-67.